Case e parole belle

Ho ricominciato a viaggiare per lavoro e anche a saltellare tra le descrizioni di alberghi e appartamenti. Sempre di più, con gli anni, scambio la vicinanza all’azienda che mi aspetta con la bellezza del posto nel quale sosto per poche ore, per dormire e fare colazione. Perché la bellezza intorno a me si riflette dentro di me. Bellezza che non significa marmi e ori, ma riparo dal rumore della strada, letto alla francese, cura delle piccole cose.

Piccole cose per rimettersi in bolla

Un paio di settimane fa ero a Milano, quartiere Brera, a mezz’ora a piedi dalla mia meta. La camera che ho affittato aveva l’affaccio su un piccolo e riparato cortile interno dove c’era un po’ di verde. La continuità tra dentro e fuori e la bellezza che come un fluido scorreva senza ostacoli sono servite a darmi pace, a farmi dormire come una bimba, a rimettermi in bolla.

Rimettersi in bolla non è facilissimo e per chi come me non ha una Nicoletta Cinotti portatile sentirsi una pallina su un piano inclinato è una sensazione ricorrente. La fisica dice che un corpo posto su un piano inclinato tende a scendere velocemente e che più il piano è inclinato più la velocità aumenta.
Quante volte le nostre giornate sono come infiniti piani inclinati sui quali rotoliamo senza poter esercitare una forza contraria che ci arresti? Se intendiamo la forza come “Causa capace di modificare lo stato di quiete o di moto di un corpo” allora ecco che le trasferte, per me, sono quella forza contraria utile ad arrestare il moto, ma soprattutto a farmi riagganciare a me. Perché inizio a fare attrito. Ridivento gruccia, smetto di essere pallina.

Dico che le trasferte mi servono a tutto ciò perché sono un momento in cui mi spoglio dei diversi ruoli e mi lancio nel vuoto: io non soffro di horror vacui, anzi. È un vuoto che può popolarsi di disimpegni per il cervello (una serie tv med, ad esempio) con il parallelo (apparente) rimpolparsi degli zigomi grazie a una maschera. Oppure di niente. Non è la quiete prima della battaglia (la successiva giornata di corso), ma lo svuotamento dalle cose da fare.
Sono stanca di quell’infinito iussivo che popola di ordini il mio cervello: fare, scrivere, ordinare, rispondere, pulire, finire, studiare. A volte creare il vuoto mi serve per ripartire con nuova forza, uguale e contraria. A volte solo per rimettermi in bolla.
Sono le trasferte, può essere un fine settimana da qualche parte, ma la solitudine è, comunque, lo stato necessario. Io a braccetto di me stessa, io in compagnia del mio dialogo interiore. Io, una volta tanto.

Parole che creano bellezza

Ritornando da dove sono partita, è per questo che per le trasferte ricerco la bellezza. Perché andare a braccetto con me stessa è più facile se i miei occhi si posano su cose belle, scelte con cura, con partecipazione e non solo per horror vacui. Lo spazio abitato mi crea serenità; lo spazio occupato angoscia. “Abitato” è quello spazio dove magari ci sono poche cose, ma capisci che sono il frutto di una scelta fatta con grazia. Grazia deriva dal latino gratia, che a sua volta deriva da gratus, nel senso di piacevole, gradito ad altrui.
Quanto mi piace questa etimologia! Non è la prima volta che ne parlo: il senso di grazia è proprio questo adoperarti per far sentire bene le altre persone. Qualcosa che ha questa musica:
 
Un maestro dei fiori comincia la lezione sciogliendo con precauzione il legaccio che stringe i fiori e i rami fioriti, e dopo averlo arrotolato con cura, lo mette da parte.
Considera quindi i singoli rami, dopo ripetuto esame ne sceglie i migliori, dà a essi, piegandoli delicatamente, la forma che devono assumere secondo la loro funzione e finalmente li dispone in un vaso appositamente scelto.
La composizione, al suo termine, appare come se il maestro avesse indovinato ciò che la natura sogna nei suoi sogni oscuri.
(Lo zen e il tiro con l’arco, Eugen Herrigel)
 
Anche decidere cosa mettere o cosa togliere da un ambiente pensato per essere vissuto da altri è una scelta di grazia, quindi.
“Occupato” è invece quello spazio dove le tante o poche cose sono lì perché funzionali, ma senza grazia: non c’è stata scelta, nel loro caso; non ci sono stati occhi amorevoli che hanno immaginato quali emozioni o pensieri o ricordi avrebbero lasciato fluire nei corpi altrui. Oggetti abbandonati a un destino di funzionalità e solitudine.
Ecco perché sono importanti le descrizioni di hotel e appartamenti. Le foto, certo, sono il filtro principale insieme alle opinioni, ma le parole scelte contano tanto. Conta la melodia che sprigionano, qualcosa di questo tipo:
 
Ho due guardaroba, uno lo chiamo “inverno” e l’altro “estate”, ma non c’entrano le stagioni, c’entrano le circostanze. L’armadio inverno contiene solo vestiti classici e scuri destinati agli altri, l’armadio estate solo vestiti chiari e colorati destinati a me stessa. Indosso l’estate sotto l’inverno, e quando sono sola mi tolgo l’inverno.
(Cambiare l’acqua ai fiori, Valerie Perrin)
 
Così, che attrattiva può avere un albergo che usa per descrivere i suoi servizi: vasta gamma, soggiorno perfetto, grande attenzione, menu particolari; per descrivere le camere: accogliente hotel e vasto assortimento; per descrivere il ristorante: cucina tipica e panorama mozzafiato?
 
Non mi sento in colpa perché ricerco il bello, non più. Una casa o una stanza si incontrano con una persona, non con un generico cliente.
Perciò, sarebbe bello vedere cuore nelle descrizioni e non solo parole accumulate; sarebbe bello ammirare audacia e non annoiarsi con i soliti cliché; sarebbe bello percepire grazia, e innamorarsi.

Foto di Marco Borgna

Scritto da Annamaria Anelli

Sono una business writer e aiuto le aziende a prendersi cura dei propri clienti, con la scrittura

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