Pessimi capi e come parlarne

Il pessimo capo. Manuale di resistenza per un lavoro non abbastanza smart lo ha scritto Domitilla Ferrari ed è il racconto delle esperienze che ha vissuto con i suoi innumerevoli capi*. Malati (parola mia) di mancanza di coraggio, scarsa visione, concezione autoritaria del proprio ruolo, incapacità di delegare, solo per fare qualche esempio. Capi che, però, per quanto pessimi o molto pessimi, le hanno sempre insegnato qualcosa (parole sue).

Il libro di Domitilla Ferrari

Quando avevo un capo

Leggere il libro di Domitilla mi ha fatto ripensare a un periodo della mia vita ormai lontano che però, quando riaffiora, mi offre sempre molti spunti: quando facevo l’Instructional Designer, cioè la progettista di corsi, per l’Isvor Fiat (la scuola di formazione del Gruppo Fiat, che adesso si chiama FCA).

Lavoravo nell’area New Media, cioè quella che sperimentava i primi corsi totalmente a distanza, fruiti attraverso una piattaforma dedicata. E in quegli anni ne ho avuti, eccome, di capi e cape, ma non posso dire pessimi e pessime, anzi. Forse sono stata fortunata o forse non ho colto comportamenti o atteggiamenti che con la consapevolezza di adesso leggerei in maniera diversa, chissà.

La nostra area si reggeva sul lavoro di consulenti giovani come me, che imparavano facendo, che non avevano orari e che (spesso) costavano davvero poco. Facevamo tardi la sera e entravamo presto la mattina, ma, se mi ricordo bene, non era un problema. Naturalmente non conoscevo ogni persona, eravamo tantə e suddivisə per grandi open space, quindi di sicuro c’era chi stava bene e chi no.

Non saper leggere il futuro

Visto che eravamo un plotone, soprattutto donne, e che lavoravamo in un’area poco conosciuta, i senior (tutti rigorosamente maschi) non ci sopportavano, perché, in fondo, non capivano chi fossimo [il futuro???].
Nei comitati, i nostri capi e le nostre cape passavano una buona parte del loro tempo a minacciare che se cacciavano noi, si poteva chiudere baracca. Tra gli interni non c’erano quelle competenze, non c’era quella fame (e poi, appunto, non c’erano quelle tariffe).

Un giorno, un tizio – che era anche lui il pessimo capo di qualcuno, Domitilla – ha detto in un comitato che noi passavamo il nostro tempo a colorare sfondi e a disegnare margherite (testuali parole, non riesco a dimenticarle). Peccato che il suddetto tizio avesse toccato con mano cosa fosse il nostro lavoro: raccogliere le necessità delle varie aree del Gruppo, progettare percorsi formativi ad hoc, intervistare figure tecniche e owner di contenuto, tradurre dal tecnichese e dal difficilese, interagire con chi si occupava della piattaforma di elearnig e con chi realizzava la grafica. Lui lo avevamo intervistato, gli avevamo illustrato il disegno complessivo, aveva visto da vicino il frutto di ore e ore di lavoro.
Come aveva potuto sostenere quelle idiozie, allora?

Le storie che ci raccontiamo servono

Ecco, il libro di Domitilla ha fatto riemergere tanti ricordi e la consapevolezza che siamo – anche – i capi che abbiamo avuto. Lei ne ha avuti tantissimi e tratteggia i colori, gli spessori e le spine di persone che mi è sembrato di vedere. Sostiene sorridendo che nella vita passa il tempo a raccontare i fatti suoi, e sarà pur vero, ma lo fa in modo da offrire tanti assist.

Il pessimo capo non è un manuale sulla leadership, ma può esserne un’utile integrazione. Perché dentro ci sono il sorriso di Domitilla (fondamentale), la sua esperienza, il linguaggio vivo che le è proprio: c’è un modo di tratteggiare scene e incrociare riflessioni molto diretto e sincero. C’è forse anche un invito a raccontarle, certe esperienze, in modo da renderle condivisibili? Credo di sì, e io ho colto il suggerimento: perché se è vero che i racconti non hanno la stessa valenza scientifica dei saggi (che sono supportati da fonti e studi acclarati), è anche vero che hanno una portata euristica molto forte.

Treccani definisce euristica l’“Aspetto del metodo scientifico che comprende un insieme di strategie, tecniche e procedimenti inventivi per ricercare un argomento, un concetto o una teoria adeguati a risolvere un problema dato”.

Ecco, i racconti che facciamo di noi e delle nostre esperienze sono strategie, tecniche e procedimenti inventivi straordinari: in base a qualche stimolo, ogni volta decostruiamo e ricostruiamo avvenimenti che abbiamo memorizzato, e ogni volta questi avvenimenti acquistano un aspetto differente. I colori, le sensazioni, i sentimenti, le riflessioni che questo lavoro inventivo innesca ci rendono consapevoli di qualcosa. Di un passaggio che avevamo perso, di una frase che assume nuova luce, di un’esperienza che magari cambia segno. Non importa se spesso sono, come sono, nostri aggiustamenti più o meno fantasiosi della realtà (gli studiosi li chiamano riconsolidamenti): comunque rappresentano uno strumento di ricerca personale utilissimo.

È come con i libri: contengono sempre qualcosa che ci serve per dare una cornice a qualcosa che per noi è importante (da un po’ ci stiamo arrovellando con quel pensiero) o che diventa importante (portiamo in superficie una corrente sotterranea). Mi fanno pensare al concetto di coincidenze significative che approfondisce Robert Hopcke nel suo libro “Nulla succede per caso” e di cui avevo parlato in un post di qualche anno fa. A un certo punto unisci quei famosi puntini e ti ritrovi: “Cogliere la totalità del Sé corrisponde a quel momento di grazia in cui capisci che ogni cosa che ti è capitata, ogni persona che hai incontrato, ogni desiderio che hai avuto fa parte di un insieme coerente. Hopcke ricorre alla metafora della storia: noi siamo personaggi di un’unica grande storia – la nostra – e, nel momenti di personale epifania, percepiamo la coerenza narrativa della nostra esistenza”.

Siamo i capi che abbiamo avuto

Per me, quindi, la lettura del libro di Domitilla è stato un modo per ricordarmi da dove vengo, per riflettere sul fatto che il primo vero lavoro in una grande (e complicata) azienda mi ha fornito strumenti importantissimi. Primo fra tutti quel saper stare al mondo in un posto (complicato) dove devi imparare da tutto perché niente ha il manuale di istruzioni.
 
Il primo insegnamento me lo ha impartito una Segretaria di Direzione (le maiuscole sono necessarie perché lei era la capa anche del suo capo!). Un giorno, forse la prima o seconda settimana di lavoro, ero alla macchinetta del caffè e lei è apparsa. Avvicinandosi, e senza guardarmi negli occhi, mi ha detto che il mio abbigliamento non era consono. Io, che indossavo jeans e camicetta, penso di averla guardata con il mio migliore sguardo ebete: ma se anche lei portava i jeans!
Io posso, mi ha sibilato. E poi se ne è andata.
 
Certo che ancora la ringrazio: ho avuto la mia lezione di code dressing, ma soprattutto ho compreso l’importanza vitale delle chiacchiere informali. Sono il vero segreto per contenere il numero di sciocchezze che puoi fare sul lavoro. Però, con gli occhi di oggi, posso anche affermare che gli insegnamenti si possono impartire in tanti modi diversi: far sentire le persone piccoli scarafaggi non è certo il più efficace.
Ma questo lo posso dire adesso, che ho vissuto.
 
Ah, dimenticavo: quindi i pessimi capi li ho avuti anche io, Domitilla.

______

* I nomi maschili singolari e plurali sono, appunto, nomi maschili: il maschile non è la forma neutra, no, perché in italiano il neutro non esiste. Quindi sono consapevole del fatto che commetto una dissimmetria grammaticale nell’adoperare il maschile per riferirmi sia a donne sia a uomini (si chiama maschile sovraesteso).
Nel testo a volte uso “capi” per praticità oppure giro la frase in modo da non riferirmi al genere delle persone. In alternativa uso:

  • la forma maschile e quella femminile in maniera esplicita (capi e cape)
  • la ə – schwa – alla fine delle parole (tantə e suddivisə)
  • il termine opaco “persona”
  • il pronome relativo “chi”.

Non c’è un modo facile né univoco per far convivere le differenze, per mostrare rispetto e insieme per salvaguardare leggibilità e comprensione di ciò che scriviamo. Quindi io continuo a sperimentare e credo di aver trovato una strada: cioè quella di far convivere all’interno del testo varie strategie linguistiche. Presto ne parlerò con un po’ più di calma.

Sempre laudata sia Vera Gheno che mi ha fatto conoscere Fabrizio Acanfora: è sua l’espressione “convivenza delle differenze” (e sempre laudata sia Vera in generale).

Foto di Marco Borgna

Scritto da Annamaria Anelli

Sono una business writer e aiuto le aziende a prendersi cura dei propri clienti, con la scrittura

Lascia un commento