Che lavoro fai in due parole

Quando Sergio Marchionne arrivò a capo del Gruppo Fiat, io lavoravo ancora per l’Isvor, la faculty del Gruppo, quindi il gossip al quale ero esposta era quasi quotidiano. Si narrava che il leader maximo, nella sua estesa opera di repulisti dei manager, rivolgesse una sola domanda, in inglese: “nello specifico, il tuo lavoro, a cosa serve?”. Se la persona intervistata non era in grado di rispondere con poche e semplici parole, e in inglese, il passaggio successivo era uscire dalla porta, svuotare l’ufficio e poi salutare le segretarie, l’autista e l’auto.

Dimmelo in parole semplici

Il particolare dei colloqui in inglese non penso fosse falso, perché Marchionne era molto più a suo agio con quella lingua, e una sua frase celebre pare sia stata: «La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei».
 
Anche questa massima, come l’episodio dei colloqui, potrebbe appartenere ai racconti agiografici, certo, ma il punto è un altro: la richiesta di tradurre in parole chiare e semplici un concetto all’apparenza anch’esso chiaro e semplice (ma tu, cosa fai?) era di certo molto intonata con quel periodo. Nei primi anni del 2000 la Fiat perdeva due milioni di euro al giorno e stava per essere smembrata tra i creditori. Quando Marchionne arrivò, di tempo non ne aveva più, quindi doveva capire presto e presto decidere. La risoluzione della complessità era l’unica strada, e scovare la fuffa manageriale il passaggio essenziale.
 
Il cortocircuito primigenio credo risiedesse proprio in questa spaccatura comunicativa insanabile. La richiesta di essere semplici era totalmente disruptive rispetto a una tradizione che privilegiava lungaggini ossequiose e vuote. Concetti spiegati in maniera semplice contro ghirigori di parole e aulicità egoriferite.

Modalità di comunicazione invero molto in voga ancora oggi, in parecchie aziende magari anche sane e con gli occhi fissi sul futuro. In tanti discorsi politici. In tanta parte della pubblica amministrazione.

Spiegamelo con i disegnini

Mi è tornata in mente questa storia di Marchionne leggendo sui giornali che il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha chiesto ai suoi ministri di spiegare il PNRR, o meglio, di spiegare in maniera concreta le ricadute sui cittadini e le cittadine che il PNRR avrà. Detto con le parole del Corriere: “Insomma parte oggi una nuova fase, almeno nelle intenzioni del premier: verrà chiesto a ogni ministro coinvolto di trasformare, ognuno per la propria competenza, un piano molto tecnico e molto complesso in un elenco semplice e fruibile di esempi delle trasformazioni pratiche di cui godranno gli italiani nei prossimi anni. Essendo il Piano il core business di questo governo l’esecutivo ne avrà da guadagnare“.
 
Ecco, chiedere alle persone che lavorano a un progetto di spiegare in una sintesi chiara e comprensibile di che cosa si occupano e, magari con uno schemino facile facile, quali ricadute avrà la loro parte nell’ecosistema generale del progetto è davvero un’idea da copiare. Secondo il teorema Marchionne, infatti, se non sei capace di spiegare la tua parte in poche parole molto chiare e affilate, potrebbe anche essere che tu non sia in grado di portarla a termine.

C’ho la delega

Spesso in azienda le persone non sono allenate a raccontare i progetti nei quali lavorano: a volte perché manca loro la visione generale (e anche questo è un tema: come mai non ce l’hanno?), a volte perché c’è qualcunə che ha la “delega al racconto”. Di solito chi ha una buona parlantina.

Questa soluzione però, se da una parte facilita la vita al gruppo e velocizza i tempi, dall’altra ha un risvolto preoccupante: copre eventuali falle perché, per fare bella figura nell’insieme, si preferisce tralasciare le singole difficoltà. Anche le singole difficoltà a spiegarsi. Saranno i mugugni in separata sede a riportarle a galla, però. A cosa serve, allora, tutto questo? Chi se ne importa di fare bella figura se poi il progetto risulta una corsa a chi mette più toppe?
 
Se invece la delega al racconto ce l’avessero tuttə, all’interno di un gruppo di lavoro, e la responsabilità di comunicazione fosse condivisa, massimo sarebbe il guadagno.
 
Arrivare alle riunioni di avanzamento con le idee chiare, gli esempi individuati, le riposte alle ipotetiche domande, gli schemi pronti necessita di uno sforzo imponente: quello di fare il punto sul proprio lavoro. La necessità di correlarsi al resto del team e di vedersi parte di un medesimo meccanismo nel quale tutto è collegato a tutto aiuta ogni persona a portare le proprie soluzioni, mentre spiega gli intoppi.
 
In sostanza, imparare a spiegare e a raccontare il proprio pezzo può contribuire al successo del progetto nella sua totalità.
Lo pensa e lo sostiene una che, per ogni nuovo cliente, in ogni nuova proposta, cerca di rispondere alla domanda scomoda che, sola soletta, si pone: a che cosa serve, nel concreto, quello che si impara con me?
 
(Se non mi so rispondere, di solito mi licenzio).

Foto di Marco Bogna.

Scritto da Annamaria Anelli

Sono una business writer e aiuto le aziende a prendersi cura dei propri clienti, con la scrittura

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